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Il mio “lento ritorno a casa” è
il ritorno alle emozioni,
al parlare al cuore,
senza vergogna di farlo.

In questa pagina ho raccolto alcuni testi che raccontano il mio percorso musicale. Per chi ha fretta posso dire quali sono stati gli astri che hanno illuminato i miei ascolti e le mie ricerche: negli anni 70 Johann Sebastian Bach prima, Genesis, King Crimson, EL&P e Pink Floyd dopo. Gli anni 80 sono stati sotto il segno di Steve Reich. Gli anni 90 portano il segno di Arvo Pärt.

Lento ritorno a casa

Per anni (forse venti) ho esplorato, Cage e la scuola di Vienna, Darmstadt e Messiaen, il rock progressivo e il minimalismo, l’elettronica in ogni sua applicazione. La riscoperta del mediterraneo. Poi: la musica etnica! Non c’è terra, al mondo, di cui non abbiamo sentito almeno qualche testimonianza. Certo, alcune sono privilegiate: Africa, India, Giava e Bali, i Caraibi, e tante altre. Ho avuto la fortuna di seguire da vicino un seminario di John Blacking prima della sua scomparsa prematura; la fortuna di conoscerlo come persona di straordinaria umanità e apertura, prima di tutto, prima di essere colui che disse: “Tutta la musica è musica popolare/etnica”. 

Ci muoviamo con agilità tra Gamelan e John Zorn, parliamo di tutto, ma sempre ad una condizione: che non ci si chieda chi siamo noi, donde veniamo e dove andiamo. Perché abbiamo viaggiato instancabilmente tra le musiche? Per una fuga nell’esotismo o per comprendere qualcosa di noi stessi? 

Esplorando le musiche del mondo ho incontrato tanti linguaggi, ma soprattutto tanti uomini e donne, storie, usi e costumi, miti e favole. Ho riconosciuto l’influsso dell’intelligenza e del corpo umano, che sono, nella diversità di forme, sempre uguali, che ci piaccia o no, sempre il frutto di un medesimo progetto genetico. In questa esplorazione ho fatto una scoperta; mi arrogo il diritto di credere che sia stata anche la scoperta di Blacking e che la mia sia avvenuta grazie a lui. Dietro tutta la pluralità di linguaggi e strutture musicali, la mia grande scoperta è stata il cuore umano e il suo calore, nonché la meravigliosa capacità di creare linguaggi sonori in grado di comunicarla, perlomeno ai nativi. Di conseguenza, ho capito che il valore di un linguaggio musicale, quale esso sia, sta nella sua adeguatezza ad essere strumento sensibile ed accurato di espressione della dimensione del cuore, dell’universo simbolico ed emotivo umano. 

Il mio “lento ritorno a casa” è il ritorno alle emozioni, al parlare al cuore, senza vergogna di farlo. I viaggi tra le musiche mi hanno insegnato questo: che nulla è più interessante delle persone, della loro vita, della loro ricerca di un “essere nel mondo e nel cosmo”, e che nulla è più prezioso di ciò che aiuta loro in questa ricerca. 

Il mio viaggio tra le musiche mi ha fatto scoprire che l’intero corpus di opere di tanti tecnocrati della musica non valga una sola pagina del Quatuor pour la fin du temps, scritto da Olivier Messiaen in un campo di prigionia e eseguito dall’autore e da altri tre prigionieri durante la guerra. Altro che pensiero negativo, altro che scuola di Francoforte! Nel Quatuor c’è un uomo che resiste alla peggiore delle oppressioni con la forza delle proprie emozioni, della propria ricerca di una spiritualità e di una forza interiore. Qualcuno si sente di andare a dirgli che ha sbagliato ad usare quelle triadi maggiori perché appartengono ad un linguaggio che la storia ha dissolto? lo di certo no.
Abbiamo costruito un complesso mondo scientifico, tecnologico, finanziario, ma siamo diventati il terzo mondo del cuore e dell’umanità; non appena abbiamo esportato il nostro modello in quel che credevamo il vero terzo mondo, la ferocia e la cecità hanno prodotto figli mostruosi che vorremmo rinnegare e non possiamo. Abbiamo creduto che la ricerca di un senso del proprio essere nel mondo fosse sovrastruttura, ma senza di essa quel che credevamo strutturale non si tiene più e cade a pezzi. Nella musica è la stessa cosa: credevamo che la dimensione simbolica ed emotiva fosse sovrastrutturale rispetto ai linguaggi, ma senza di essa i linguaggi diventano stupide grammatiche, tassonomie da etnomusicologi depravati, il nulla. 

Passi da un mio articolo pubblicato sulla rivista Progetto Uomo-Musica n° 6. Luglio 1994.

Il silenzio

Era il 4 ottobre 1990. Arvo Pärt si trovava a Bologna per presenziare ad alcune esecuzioni di suoi brani nella basilica di San Petronio. Mi si è presentata l’occasione di trascorrere un paio d’ore a parlare con lui di musica, quel pomeriggio. Ci fu una cosa che lui disse che ha confermato, e in certa misura anche consolidato e sviluppato un mio modo di sentire la musica. Posso ricordare le sue parole in questo modo: 

Immagina di essere in un posto dove non c’è niente, non c’è nessuno, non c’è alcun suono, nessuna luce, niente e nessuno e dunque non c’è nulla che si possa fare. Ad un tratto, però, puoi emettere un suono, che attraverserà quel silenzio e quel vuoto. Ecco, io, quando scrivo la mia musica, cerco di cogliere quell’attimo.

Arvo Pärt, comunicazione personale

Mi è apparso subito chiaro che quello era anche parte del mio modo di cercare la musica, con una variante: una volta rotto quel silenzio io provo il desiderio mistico e bruciante di non reincontrarlo mai più, e cerco di giungere a questo con la iterazione musicale.

Scrivere al pianoforte

«Penso ad un americano sbarbato, dalle sopracciglia nere, che soffoca di caldo al ventesimo piano d’un edificio di New York. Sopra New York il cielo brucia. L’azzurro del cielo si è acceso, enormi fiamme gialle vanno a lambire i tetti, i monelli di Brooklyn vanno a mettersi in mutandine da bagno, sotto gli idranti per innaffiare. La camera semibuia al ventesimo piano cuoce in pieno fuoco. L’americano dalle sopracciglia nere sospira, ansima, e il sudore gli cola giù per le guance. È seduto, in maniche di camicia, davanti al pianoforte, in bocca ha un sapore di fumo, e vagamente, vagamente, un ombra di motivo nella testa Some of these days. Tom arriverà tra un’ora con la sua fiaschetta piatta sulla natica; allora s’affonderanno tutt’e due nelle poltrone di cuoio e berranno bicchieroni di alcool ed il fuoco del cielo verrà ad infiammare le loro gole, sentiranno il peso d’un immenso sonno torrido. Ma prima bisogna annotare quest’aria. Some of these days. La mano madida afferra una matita sul piano Some of these days, you’ll miss me honey.»

Passi da: J.P. Sartre, La nausea

Tutta la musica del mondo

Oggi per noi le musiche della terra non hanno più sorprese. Abbiamo fatto sì che l’intero mondo umano distendesse davanti alle nostre orecchie le musiche di ogni luogo. Suonatori, danzatori e cantanti di ogni dove hanno appoggiato sulle nostre tavole l’oro e l’argento dei loro canti e dei loro inni e danze. E tutti noi, musicisti moderni, ci siano uniti in uno sforzo corale di mescolare, contaminare e fecondare quei metalli preziosi creando leghe inaudite, sapori originali ed esotici; abbiamo riempito l’orecchio del mondo di tutto ciò che di più prezioso le menti, le mani e le voci degli umani hanno creato nei millenni. Non paghi, abbiamo scavato nel nostro passato ricostruendo sapori antichi e primitivi, ibridandoli poi con ghirlande arabe, africane, oppure nordiche, o indigene. Ai nostri lucenti pianoforti, ai nostri ottoni scintillanti abbiamo affiancato strumenti intagliati da mani scure, legati con corde e fibre di piante sconosciute; abbiamo soffiato dentro legni tropicali e percosso tamburi fatti con pelli di animali di terre lontane. La ricchezza sonora del mondo è distesa ai nostri piedi in cumuli sconfinati, e noi vi attingiamo a piene mani, mai sazi, sempre avidi e insoddisfatti. I nostri cuori non sussultano, i nostri occhi non piangono, le nostre gole non hanno singulti. Assaggiamo spezie rare dai sapori unici con l’espressione annoiata di stanchi sommelier. Della musica possediamo tutto il superfluo e abbiamo smarrito l’essenza.

È inutile fare con più ciò che si può fare con meno

Da questa frase di Occam deriva una delle idee essenziali del mio fare musica: meno è meglio. Se puoi fare con meno note, fallo. Non aggiungere una nota se non è strettamente necessaria. Nel dubbio, togli o taglia. Semmai, ripeti la stessa nota variando il tocco, il tempo, e anche il silenzio. Meglio scegliere tra cinque note che fra dodici. Quando improvvisi, inizia dal silenzio, e poi da una nota sola, massimo due o tre. Ascolta il corpo, le dita, il respiro. Ascolta la voglia che hai di cantare qualcosa.